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Ancora oggi, l’avvocato è la prima figura professionale, esperta del processo separativo, che avvicina la coppia e che da solo riveste un ruolo decisivo nella prevenzione o nel contenimento del conflitto.

L’atteggiamento mentale dell’avvocato, che per primo accoglie la sofferenza di colui/colei che sta vivendo la separazione, diviene quindi decisivo nel determinarne lo sviluppo futuro verso l’appianamento delle divergenze o l’inasprimento del conflitto.

In accordo con l’A.I.A.F. (Protocollo d’Intesa tra Tribunale di Verona, ULSS 20 e A.I.A.F. Verona), ritengo che in prima istanza l’avvocato debba svolgere una funzione di supporto all’esame di realtà del cliente, in quanto quest’ultimo può essere parzialmente limitato dalle emozioni che invadono la sua mente. La rabbia nei confronti dell’altro coniuge che, ad esempio, ha tradito (concretamente o metaforicamente rispetto a un progetto di vita fatto in due) può portare a richiedere l’affidamento esclusivo dei figli sulla base di una sua presunta inadeguatezza. Tale emozione può e deve essere compresa da un lato, ma dall’altro va ridimensionata perché non debbano soffrirne i figli della coppia. Compito dell’avvocato, in questo senso, sarà quello di richiamare al proprio cliente il dettato normativo che, ponendo l’accento sull’affidamento condiviso, porta a distinguere tra ruolo genitoriale e ruolo coniugale.

In seconda istanza, il Protocollo sembra esortare l’avvocato a svolgere un’opera di mediazione atipica, in assenza cioè dell’altra parte, assumendone il punto di vista. Compito certamente non facile in questa prima fase del rapporto nella quale, di fatto, questo punto di vista è ancora sconosciuto. In questo ruolo di mediatore, l’avvocato dovrà cogliere le incongruenze presenti nel racconto del proprio assistito e, con tatto, renderlo consapevole.

Inoltre, (Articolo 2 del Protocollo) si richiede all’avvocato di prospettare al cliente, che insiste nel richiedere l’affidamento esclusivo dei figli, quanto sia difficile arrivare a tale risultato, con il dettato normativo attuale che poggia sul diritto del minore alla bi genitorialità, e con quali costi emotivi per i minori.

Al punto 3 poi, il Protocollo chiama l’avvocato a “contattare la controparte invitandola a confrontarsi stragiudizialmente con l’assistenza di un altro legale per cercare una soluzione concordata” e, al punto 4, a “avvalersi di una competenza interdisciplinare servendosi, d’accordo con l’altra parte, di consulenti pubblici e/o privati per una migliore identificazione degli interessi delle parti e della prole, evitando di ricorrere unilateralmente a consulenze o perizie di parte”.

Tali indicazioni mi trovano pienamente d’accordo, in particolare con il punto 4; esse sono in linea con quanto sostengo da sempre, cioè che la separazione legale trarrebbe vantaggio se, parallelamente, si lavorasse sul piano psicologico per aiutare le parti a elaborare la separazione.

Mi chiedo, tuttavia, perché non avviare da subito questa collaborazione interdisciplinare, per lo meno per quelle separazioni che appaiono conflittuali e problematiche.

Le competenze che il Protocollo richiede all’avvocato appartengono per formazione alla professionalità dello psicologo.

Vediamo, dunque, quale supporto può dare lo psicologo all’avvocato divorzista fin dalle prime fasi di assunzione dell’incarico.

  • Raccogliere la storia personale, di coppia e separativa del soggetto per arrivare a una migliore comprensione delle dinamiche attuali.
  • Lavorare sulle emozioni che, se non elaborate, potrebbero ostacolare il dialogo con il coniuge nella fase del confronto stragiudiziale e, di conseguenza, la ricerca di soluzioni equilibrate e condivise per l’affidamento dei figli.
  • Sostenere il ruolo genitoriale nella fase separativa. Diversi studi evidenziano quanto sia importante per i figli poter essere informati dei cambiamenti dell’organizzazione familiare che seguiranno alla separazione e di avere la possibilità di esprimere sentimenti e paure tipiche di questa fase di transizione (Malagoli Togliatti, Lubrano Lavadera, 2002). Altri studi (Kelly, Emery, 2003), tuttavia, evidenziano che la maggioranza dei genitori non parla col figlio della separazione. Varie difficoltà emotive possono indurre il genitore a evitare questo confronto con i figli, nonostante la sottolineatura della sua importanza da parte dei mezzi d’informazione: il senso di colpa da un lato, il rifiuto della separazione e la speranza che tutto possa tornare come prima, dall’altro.

Il ruolo dello psicologo in questa fase può essere fondamentale nel guidare e sostenere il genitore nella comunicazione al figlio e nella comprensione empatica dei vissuti, delle emozioni, delle paure del figlio rispetto alla separazione dei genitori.

Il lavoro di elaborazione svolto dallo psicologo esperto del processo separativo facilita il lavoro di mediazione dell’avvocato e il confronto stragiudiziale tra le parti.

Quando la coppia sarà pronta ad affrontare il percorso stragiudiziale con gli avvocati, il supporto psicologico alla parte potrà continuare, in parallelo, attraverso un monitoraggio del grado di accettazione psicologica degli accordi via via raggiunti e della comprensione di quanto accade nel corso della separazione legale.

L’attuale tendenza dell’avvocatura alla mediazione è senza dubbio apprezzabile, tuttavia credo sia importante segnalare quanto essa esponga a un alto rischio di false consensuali. Per chiarire, la mediazione può produrre accordi che non tengono realmente conto dell’interesse dei figli minori o che non sono l’espressione di un confronto autentico e sereno tra le parti. Talvolta, sugli accordi raggiunti, più che l’interesse del minore, pesa l’atteggiamento rinunciatario di una parte e/o tendenze manipolative e narcisistiche dell’altra.

Il problema è che le false consensuali porteranno presto una delle parti a riaprire il contenzioso giudiziale e a quel punto il conflitto, che si credeva risolto, in realtà si sarà incancrenito diventando più difficile da “curare”.